Il punto sul quadro macro USA.
Il punto sul quadro macro USA - 8 Agosto 2024
La decisione della Bank of Japan di aumentare il 31/7 il tasso di policy allo 0,25% dallo 0,1% precedente, contro le aspettative di consenso, e l’annuncio del piano di riduzione degli acquisti mensili di obbligazioni per 0,4 trilioni di yen ogni trimestre, ha provocato la chiusura di molti carry trade yen/dollaro USA e il repentino rialzo dello yen che il 4/8 è arrivato a 145,5 yen per dollaro, non lontano dal massimo di fine 2023 (141).
La BoJ ha voluto sfruttare l’opportunità di normalizzare i tassi, dopo un lungo periodo di inflazione elevata (la core inflation è stata rivista al 2,5% e confermata intorno al 2% per il prossimo biennio) supportata anche da attese di ulteriori rialzi dei salari nominali. Questi ultimi hanno riportato il 6/8 un balzo del 4,5% annuo a giugno, il più rapido degli ultimi 27 anni, dopo l’aumento del 2,0% a maggio.
La prospettiva della fine di un lungo periodo di liquidità abbondante in yen e della politica monetaria espansiva della BoJ, ha anche avuto un immediato effetto sui mercati azionari, in primis giapponese e a seguire su tutti gli altri, che hanno visto una brusca caduta dei prezzi ed un rialzo notevole della volatilità.
Nei grafici seguenti sono riportate le nostre stime del VaR 5% a un mese, aggiornate il 6 agosto, che permettono di apprezzare come questo salto del rischio di perdita sia stato particolarmente evidente sull’indice MSCI Globale, che comprende il Giappone, mentre è risultato assai meno importante sul MSCI USA e Europe.
Solo le prossime settimane potranno confermare o meno se la tendenza alla progressiva riduzione del rischio (e conseguente positivo andamento degli indici) degli ultimi due anni si è definitivamente interrotto e addirittura capovolto, o se è destinato a riprendere dopo lo shock di questi ultimi giorni.
Per gli USA, tuttavia, la discesa dello S&P 500 è stata anche l’occasione per rilanciare i timori di recessione, il che ovviamente andrebbe a sostegno di uno scenario negativo per la Borsa americana e dell’instaurarsi di un regime “bearish” e di crescente volatilità.
Alcuni dati recenti statunitensi hanno supportato questa ipotesi, in particolare quelli provenienti dal mercato del lavoro, dove le richieste iniziali di sussidi di disoccupazione di luglio (Initial Jobless claims) sono aumentate a 249K dalle precedenti 235K e le richieste di sussidi di disoccupazione (Continuing Jobless claims) sono risultate anch’esse in crescita a 1877K rispetto al precedente 1844K.
Questo dato ha portato la media della crescita del tasso di disoccupazione degli ultimi 3 mesi rispetto al minimo dei 12 mesi precedenti leggermente oltre al valore di 0,5%, che è, secondo l’economista Claudia Sahm ex FED, un ottimo indicatore anticipatore della recessione (la c.d. Sahm Rule della FED di St Louis).
Inoltre, anche il dato anticipatore del ciclo economico del settore manifatturiero statunitense (ISM PMI Index) è sceso a 46,8 punti da 48,5, nella rilevazione del 31/7, influenzato dalla forte diminuzione della componente occupazionale dell’indicatore PMI manifatturiero, e della discesa dell’indice manifatturiero cinese Caixin a 49,8 dal precedente dato di 51,8, a cui il PMI Manifatturiero USA è correlato.
Questi dati si inseriscono per altro in un quadro che vede i tassi reali americani a 10 anni intorno all’1,9% ovvero sui massimi dal 2010, una domanda di mutui immobiliari stagnante ed un settore immobiliare e delle costruzioni che ha smesso di scendere ma che non sembra ancora intravedere i primi segnali di una ripresa.
Infine, la fiducia dei consumatori, sostenuta dall’eccesso di risparmio generato durante il periodo del Covid 19, dal “wealth effect” derivante dalla crescita di valore degli investimenti azionari e da un mercato del lavoro effervescente, rischia di venire seriamente intaccata dal venire meno di questi fattori.
A fronte di questi dati, altri indicatori macroeconomici USA sono meno negativi.
Il modello GDPNow della FED di Atlanta prevede una crescita del PIL reale del III trimestre del 2,9%, su base annua e destagionalizzata, in leggero aumento rispetto al II trimestre. Il modello indica una crescita del 3,0% della spesa reale per i consumi nel trimestre, nonostante la debolezza dell’occupazione, grazie alle ottime vendite di auto a luglio (15,8 milioni di unità).
Il modello cerca di stimare la crescita del PIL trimestrale sulla base di una serie di indicatori mensili, o a più alta frequenza, e quindi potrebbe subire degli aggiustamenti e revisioni man mano che ci si avvicina alla fine del trimestre, ma per il momento le indicazioni sono confortanti.
Il sondaggio sull’opinione dei responsabili dei prestiti senior (SLOOS) della FED, grafico della pagina seguente, segnala che nel III trimestre le banche non stanno più aumentando i tassi sui prestiti, la domanda di prestiti sta iniziando a riprendersi e poche banche stanno inasprendo i loro standard per concedere prestiti. Il che non è compatibile con una recessione economica.
Se sul fronte del settore manifatturiero le notizie sono negative, su quello dei servizi è arrivata una nota positiva il 5/8 con l’indice ISM dei servizi che è salito a 51,4 a luglio, da 48,8 a giugno, attenuando i timori di un crollo dell’economia. L’indice principale ha recuperato fino a posizionarsi a soli 0,2 punti al di sotto della sua media nella prima metà di quest’anno, quando il PIL è aumentato a un ritmo decente. La ripresa è stata guidata in egual misura dagli indici di attività economica e dai nuovi ordini.
Infine, la stagione degli utili del II trimestre sta andando bene, con l’81% delle imprese presenti nell’indice che ha già comunicato i dati, l’aumento degli utili dell’S&P 500 è pari al 10,2% rispetto alle aspettative dell’8,1% di qualche settimana fa.
In sintesi, quindi, il timore che la FED sia in ritardo nel valutare i rischi di recessione e che la decisione di collocare la prima finestra di un taglio dei tassi a settembre sia troppo cauta, anche alla luce della discesa dell’inflazione USA, non trova completa giustificazione nei dati macro.
I mercati sull’onda delle turbolenze di questi giorni si sono affrettati a prezzare fino a 200 bps di tagli del tasso dei Fondi Federali (FFR) nei prossimi 12 mesi. Sul fronte puramente macroeconomico non ci sono ancora tutti i motivi perché la FED sia così reattiva, a meno che non si verifichi una contrazione del credito a livello globale a seguito della fine del “carry trade” sullo yen, o che il quadro geo-politico mondiale subisca un netto peggioramento.
In ogni caso, rispetto agli anni scorsi, la FED ha uno spazio di manovra molto maggiore, con i FED Fund a 5,25% – 5,5%, per guidare le aspettative dei mercati, mentre il recente cambio di politica monetaria della Bank of Japan è un ulteriore passo positivo nel processo di normalizzazione monetaria mondiale, dopo i molti anni di tassi a breve vicini a zero, o addirittura negativi.